Da allora mi sento a casa nel mondo

Marco Balich

CEO, Balich Worldwide Shows, con Intercultura nel 1979/80

Parla Marco Balich, organizzatore di eventi mondiali e delle cerimonie dei Giochi olimpici invernali di Torino, e, nel 2016, di Rio. Quarto anno di liceo a Chicago, nel 1979, con Intercultura. "Quell'esperienza è il regalo più bello che si possa fare a uno studente"

"L'ANNO che ho passato all'estero al liceo? Beh, è partita da lì la mia voglia di girare il mondo, la voracità di confronto, la voglia di sperimentare. Ed è stata la mia forza in tante situazioni delicate, anche nel lavoro". Ha pochi dubbi sul valore di quell'esperienza e su quanto sia stata formativa Marco Balich. Il re delle cerimonie olimpiche - da direttore creativo e produttore esecutivo ha firmato, fra l'altro, l'apertura e la chiusura dei Giochi invernali di Torino nel 2006, premiati con due Emmy, e ora ha in cantiere le Olimpiadi di Rio 2016 - ha un respiro decisamente internazionale, come la Filmmaster Events, di cui è presidente (Ora non più, ora è fondatore e CEO della Balich Worldwide Shows, NdR), che ha sedi da Milano a Dubai. Veneziano di nascita, si è mosso un bel po' per il mondo e da ex borsista di Intercultura - la onlus che promuove programmi di studio all'estero per i ragazzi delle scuole superiori - racconta come quell'immersione in un mondo completamente diverso, a 17 anni, per lui abbia fatto la differenza: "quello che mi ha lasciato, soprattutto, è la capacità di sentirmi a casa in tutto il mondo".

Cosa ricorda di quell'esperienza?

"Parliamo di parecchi anni fa. Era il 1979, avevo 17 anni ed ero convito di sapere tutto. Con tutte le mie posizioni a priori sono stato preso e trapiantato in un 'giardino' completamente diverso. Sono andato a Chicago, negli Stati Uniti. In quegli anni non c'era in made in Italy, gli italiani erano considerati come figli di Al Capone. Per me veneziano, permaloso, è stato uno shock. Poi pian piano ho iniziato a capire, a sentirmi più a mio agio. E a crescere: cominci a mettere in dubbio, a crearti una tua opinione non omologata, più mediata, altruista, tollerante. Diventi adulto, sei più sicuro e non hai più paura di confrontarti con il diverso".

Cosa l'ha spinta a partire?

"Mi stava tutto stretto. Sentivo che c'era di più dell'occupare la scuola, farsi le canne, aspettare il concerto nel weekend".

E l'impatto, com'è stato?

"Una doccia fredda. Prima di imparare a godermi il sole di quel 'giardino' nuovo ci sono voluti sei mesi molto difficili. Non ero integrato, la scuola là era basata su criteri diversi da quelli a cui ero abituato io: lo sport era centrale, mentre qui c'erano criteri più culturali, politici, 'trendy'. Era un periodo divertente, esplodevano i Bee Gees, ma era anche dura: ho avuto momenti di grande solitudine, mi mancava la famiglia, gli amici, il gruppo. Poi pian piano vieni accettato, accetti tu gli altri, e nascono amicizie e rapporti profondi. Con qualche amico là sono ancora in contatto e sono passati 30 anni".

Cosa ricorda del primo giorno in America?

"I pullman Greyhound, il mucchio di tutti gli studenti che facevano la stessa esperienza. E la famiglia che mi ha accolto: era un po' strana, ma mi ha aperto la casa e trattato come un figlio".

E di quando è tornato a casa?

"Quando torni ti sembra tutto più piccolo. Vedi che gli altri stanno ancora facendo le stesse cose, ti rendi conto di aver compiuto il passo del non ritorno. Hai fatto un salto quantico di esperienze, emozioni. E sei pronto ad uscire, ad intraprendere, senza paura, con coraggio. E' un percorso che ti forma".

Eppure molti insegnanti non incoraggiano gli studenti a partire, sono preoccupati che rimangano indietro col programma.

"Ma se è la cosa più bella che puoi dare a uno studente... Se la scuola deve formare per la vita, questa è una delle esperienze più importanti e forti che si possano fare. E conta certamente di più di qualche parola di greco che si può aver lasciato indietro".

Con lei i professori sono stati comprensivi al ritorno?

"Beh, ho passato la maturità classica col punteggio minimo. Diciamo che mi hanno simpaticamente aiutato, come un fenomeno diverso".

Le sembra che i ragazzi abbiano ancora voglia di mettersi lo zaino in spalla e partire come ha fatto lei?

"Oggi il mondo è decisamente più piccolo, molto più connesso. Allora non si telefonava neanche dagli Stati Uniti, costava moltissimo, si scrivevano lunghe lettere che conservo ancora. Oggi c'è Skype, è più facile, e i posti che si esplorano sono più lontani: Cina, India, Perù... Ma la società per i ragazzi oggi è più difficile e mi sembra che le famiglie tendano ad essere più protettive, molto di più rispetto a noi".

Un anno di scuola all'estero è importante per il curriculum?

"Assolutamente sì. Quando mi trovo ad un colloquio qualcuno che ha fatto quest'esperienza riconosco immediatamente quell'apertura, quella freschezza, il coraggio, la 'laicità' nei confronti di molti temi. Per me è una cosa meravigliosa. Significa capire i propri valori e quelli degli altri, essere aperti. Intelligenti, in una parola".

Qual è la cosa più importante che le ha lasciato quell'esperienza?

"La capacità di sentirmi a casa in tutto il mondo. Ora lavoro ovunque, col sorriso, sono più tollerante ed altruista. Insomma,citando John Lennon, se tutti lo facessero, avremmo un mondo meno egoista, più aperto, migliore".


intervista di Peppe Aquaro, pubblicata sul Corriere della sera del 27 febbraio 2013

“Io scoprii Chicago, ma oggi andrei in Cina o in Giappone”

Non ditelo a Barack (Obama), ma grazie a Intercultura un’altra celebre B. si è trasferita per ragioni di studio a Chicago, battendo sul tempo il futuro presidente degli Stati Uniti. Balich, Marco, è arrivato nella Città del veto nel ’79 “quando essere italiano tra le vie e i palazzi attraversati cinquant’anni prima da Al Capone, non è che fosse una grande pubblicità al Made in Italy”, ricorda il regista e creatore di eventi come le cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi invernali di Torino, o le Olimpiadi di pechino nel 2008.

Quando ha 17 anni e molte idee in testa, Balich, concluso il terzo anno del liceo CLASSICO Marco Polo a Venezia, parte alla conquista dell’inglese. “Per imparare la lingua, certo, ma dopo un anno di studi ho capito quanto fosse stata importante quell’esperienza soprattutto dal punto di vista umano”, ricorda Balich, che dopo 33 anni è rimasto in contatto col “fratello americano”.

“A Hinsdale, appena fuori Chicago, nella famiglia che mi ospitava, c’erano pochi ma importanti precetti: prima di tutto dovevi comportarti da figlio e socializzare con tutta la famiglia”. Un esperimento riuscito. Oggi i due fratellastri d’oltreoceano si sono promessi di inviare i propri figli (ciascuno ne ha quattro) nei rispettivi Paesi di origine non appena avranno raggiunto l’età per un’esperienza all’estero. Non solo. “Se si presentassero da me degli aspiranti collaboratori dicendomi di aver fatto un anno all'estero, magari attraverso Intercultura, li prenderei senza esitare”, confida i realizzatore di spettacoloni. Dice proprio così, sorridendo, colui che si appresta a regalare appeal al padiglione Italia di Expo 2015, “provando a essere un veicolo per celebrare nel migliore dei modi una nazione”. E’ accaduto per le Olimpiadi di Torino, dovrebbe ripetersi per quelle di Rio 2016. Ma se avesse oggi 17 anni, dove si recherebbe Marco Balich in cerca di se stesso? “Ero un fanatico degli Stati Uniti, oggi dietro l’angolo vedo l’India, il Giappone e la stessa Cina, posti ideali per maturare un approccio laico e curioso nei confronti di usi e costumi diversi”.

Il tema del convegno organizzato da Intercultura è “Il Corpo e la Rete”: secondo lei, il viaggio virtuale aiuta ad ampliare i propri orizzonti?

“Non sono più su Facebook, e questo non vuol dire essere contro i social network: penso però che andrebbero utilizzati come uno strumento parallelo”. Conclude il produttore olimpico: “Più di trent’anni fa, durante quell’anno a Chicago, ho scritto con trasporto un mucchio di lettere ai miei genitori; recentemente, rileggendole mi sono commosso. Se non fossi andato in America, forse non sarei stato capace di raccontarmi in quel modo”.

Articolo di ALESSIA MANFREDI pubblicato su Repubblica.it il 27 settembre 2012

Leggi anche l'articolo uscito sul Corriere della Sera del 27 febbraio 2013

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