Non un solo giorno sprecato

Gaia

Da Napoli in Turchia per un anno

Quando mi chiedono perché io abbia scelto la Turchia, dico che è stata lei a scegliere me.

Fondamentalmente, non credevo in nessuno dei dieci paesi che ho scritto. Il mio obiettivo era il mondo e avrei accettato ogni luogo come un dono e fatto tesoro dei suoi insegnamenti. A volte però, quando intorno a me c'è troppo rumore, mi chiudo in me stessa e mi chiedo come sia arrivata fin qui. Perché abbia sentito il bisogno di andarmene per un anno in un posto in cui non conoscevo niente e nessuno e perché quel posto sia proprio la Turchia. "Perché proprio qui? Perché non Francia, Germania, Stati Uniti? " -" Perché non torni a casa? Non hai paura di morire?" Sono queste le due domande che mi sono state poste più frequentemente da quando sono arrivata. È difficile spiegare cosa muova una giovane straniera a restare in un Paese che da un momento all'altro inizia a diventare poco sicuro ed in una città che è stata bombardata tre volte in cinque mesi. Il giorno dopo quell'ultima esplosione , successe qualcosa che non ho mai raccontato a nessuno. Ad Ankara ci fu un falso allarme di un'altra bomba esplosa nel centro commerciale a cinque minuti dalla scuola che frequento, dove io avevo passato centinaia di pomeriggi. Non dimenticherò mai le parole di uno dei miei compagni di classe: "Torna al tuo Paese, se sei intelligente. Lo sono anche io, ma non me ne vado perche sono nato qui io!'' Così io mi alzai in piedi e con la voce ben schiarita urlai ai miei compagni di classe.

"É la Turchia il mio Paese. E io non vado da nessuna parte!"Ho pensato a quella frase molte volte e col tempo essa ha acquistato un significato che prima non vedevo. Come oggi, anche quello era un giorno di pioggia e tornai a casa a piedi, con le lacrime che mi rigavano il viso. Solo adesso capisco che non piangevo perché avessi paura di morire, non era la mia sicurezza a preoccuparmi. Ma era quel sangue in quella piazza in cui io ero passata così tante volte, quel sangue che giaceva sull'asfalto, di cui presto i Paesi esteri si sarebbero dimenticati. Erano le lacrime di quelle famiglie che rivendicavano i loro cari, a essere diventate improvvisamente anche le mie. E i volti dei miei compagni di classe, del fioraio all'angolo, dei bambini che non sapevano perché stesse succedendo proprio al loro Paese, e di mia madre ospitante che scoppiava piangere ogni due passi. Adesso so che è stato quello il momento in cui ho smesso di essere una straniera, quando, camminando verso casa mia, ho pianto per il mio popolo, per il mio Paese. Ho pianto ricordando quella me di molto tempo fa, seduta a consumare un pasto caldo col lusso di cambiare programma quando le notizie del telegiornale risultavano troppo vere per essere sopportate. Ho pianto perché ho avuto paura mi avrebbero rimandata in Italia. Ma no, neanche per un secondo ho indugiato nel chiedermi se restare o andare via. Credo che qualcosa in me dopo quel giorno sia cambiato per sempre. E ciò che voglio dire a tutte le persone in Italia, é di non aver paura di sapere. Di non cambiare canale. Perché essere lontani fisicamente da eventi del genere non li rende inesistenti.

Perché siamo tutti esseri umani, e l'unica cosa che ci accomuna veramente, l'unica cosa che ci rende uguali, al di là di cultura, Paese e religione, sono compassione e amore. Non abbiate paura del diverso. Un mio caro amico una volta mi ha chiesto: "Perché le azioni di un gruppo terrorista islamico dovrebbero rappresentare una religione intera? Perché L'Europa non accetta i rifugiati e perché all'estero io debba essere discriminato? Sono un musulmano, sono forse un terrorista?" Me lo chiese puntando il dito al suo volto! E allora voglio raccontare al mondo la verità su questo Paese. Non ho mai considerato le mie origini importanti e diamine no, non avrei dato la mia vita per il mio Paese. Consideravo il patriottismo una scemenza poiché in Italia non è un valore estremamente condiviso.
"É la Turchia il mio Paese. E io non vado da nessuna parte!"

I colori della Turchia

Ricordo un giorno di inizio ottobre in cui, durante la cerimonia di fine settimana in cui si canta l'inno nazionale per chiudere le lezioni, ero in cortile coi miei compagni di classe e dissi a uno di loro che mi annoiavo nel cantarlo. Lui si offese e mi rimproverò perché avevo detto una cosa veramente brutta e che per lui era invece piuttosto importante . Allo stesso modo, vedevo ovunque foto, libri, monumenti con Ataturk, il leader che ha fondato la Repubblica turca nel 1923. Non riuscivo a capire come si potesse adorare qualcuno cosi. Ho osservato a lungo da lontano, prima di riuscire a entrare effettivamente in questo Paese. Ed ho finalmente capito. Ataturk ha liberato un popolo intero dalla schiavitù di un sultano e credeva in un'idea di nazione moderna, di una scuola laica e gratuita e di un popolo nazionalista. E allora adesso il venerdì, alla fine delle lezioni canto anche io, spalla a spalla coi miei compagni, quest'inno, con gli occhi rivolti alla bandiera, ringraziando questa catena illogica di eventi, che ha voluto prendessi proprio questa strada, come se sapesse di cosa io avessi realmente bisogno. E i turchi sono fieri, fieri della loro storia, della loro lingua, della loro cultura. La gente è semplice e ospitale, mossa da valori limpidi e onorevoli, come aiutarsi a vicenda, accertarsi che l'altro stia bene, e non lasciare mai nessuno da solo. Così tante volte ho frainteso premura con invadenza. Ricordo quella volta che durante la chiamata alla preghiera, i miei primi giorni, iniziai a imitare la voce del Muezzin (l'uomo che chiama i fedeli a pregare) non avendo alcuna idea avesse importanza. Semplicemente perché per me la religione non ne aveva e in Italia è quasi strano se non bestemmi, e poco usuale per gli adolescenti andare in Chiesa. Ricordo quando, ascoltando la musica a tutto volume, mia sorella ospitante entrò nella stanza facendomi notare che c'era L'Ezan e dovevo stopparla. Eppure nessuno mi ha condannata per questi piccoli, innocui errori da straniera. E adesso i miei amici mi guardano, ridono e mi chiamano "L'Italiana turca". Adesso non permetto più a nessuno di dire la parola "straniera"' per me, e se me lo chiedono mi annuncio così, dicendo che sono "metà e metà", e che non voglio scegliere.

Ciò che mi è chiaro adesso è che se sei fortunato, allora nasci in un posto che ami, in una famiglia che morirebbe per te e sei circondato da amici che hai da sempre senza neanche ricordarti come lo siate diventati. Il difficile viene quando ti intrufoli nella vita di qualcun'altro, in un nucleo familiare esistente da molto prima che tu arrivassi. Allora, per insediarti in qualcosa che vive già, senza che la tua presenza sia necessaria per completarla, è richiesto tutto il tuo impegno e il tuo tempo. Osservare, prima di tutto, come un ente esterno. Forse questa è stata una delle cose più importanti che ho imparato. Vedete, io non sono mai stata una persona paziente, e non ho mai saputo aspettare, né trovato il momento giusto per dire o fare qualcosa. Sono sempre stata impulsiva e se non andava bene agli altri, problema loro. Ho avuto un bel rapporto con la mia famiglia ospitante fin dall'inizio, ma mi ci è voluto tempo per legare con mia madre. Tempo perché le mie frasi in turco migliorassero fino a diventare qualcosa di sensato, tempo per capire le loro abitudini e per riaggiustare le mie. E adesso mi guardo indietro e non riesco a immaginare la mia vita senza questa donna, senza questa famiglia. Questo mi fa chiedere cosa sono stata e cosa sono adesso. La mia vita si è mischiata con la loro così tanto che non riesco neanche più a considerarci persone diverse. È vero, io ho avuto un passato e anche loro. Non farò mai parte dell'album di infanzia che a mia sorella piace tanto mostrarmi perché io conosca meglio le loro radici, non farò parte di quel filmino di Halloween del 2007 che a loro fa tanto ridere. Non sarò stata con loro in quel viaggio a Atene in cui mia madre aveva affrontato un ladro. È vero, non posso entrare a far parte di ricordi così privati e essenziali, e così neanche loro. Nessun ricordo buffo di quando muovevo i miei primi passi. Nessun compleanno e di certo non saranno stati al tavolo con me a giocare a tombola in tutti questi natali. Come ho detto, se sei fortunato nasci in un posto e in una famiglia che ami. Ciò che è capitato a me, invece, è una cosa straordinaria e impagabile.

Mi è capitato di riscrivermi, di avere una madre che non mi ha dato la vita ma mi ha fatta crescere nel momento più importante, una sorella per la quale mi butterei da un ponte a saperla in pericolo. Io ho provato la più grandiosa delle emozioni, sono rinata una seconda volta, ho piantato radici nuove.
É difficile adesso, a otto mesi dal mio arrivo, non guardare talvolta indietro, a tutta la strada che ho percorso. Ricordo la prima volta in cui sono arrivata in questa casa, ho passato le valigie e mi sono chiesta: "E adesso?". E avevo tutto davanti a me, in attesa di essere costruito. Perché non c'è niente di più minaccioso dell'incognito, di qualcosa che ci aspetta dall'altra parte che non abbiamo mai visto. Sarò io abbastanza forte da affrontarlo? E Le mie conoscenze all'altezza di quello che sto per conoscere? È la sfida più spaventosa del mondo. Eppure io darei tutto ciò che ho per provarla un'altra volta. Quando sei in un Paese nuovo, oltre agli sforzi continui per un affetto che ti devi guadagnare, l'unica cosa che porti con te è il paese da cui vieni, come un bigliettino da visita. La gente sarà curiosa e tutti ti riempiranno di domande continue e senza sosta. Tu diventi semplicemente il ponte che collega il posto in cui sei e quello da cui vieni. Forse l'unico legame che potranno avere con il tuo Paese natio e l'unica fonte di verità. Non importa cosa, dopo di te lo immagineranno così come le tue parole l'hanno descritto e la gente sul tuo modello specifico.
Perciò non essere pigro! Molto spesso essere triste non è altro che pigrizia. Fai un bel sorriso e lasciati conoscere! Lasciali viaggiare stando fermi, se non possono permettersi di venire a trovarti. Condividi ciò che è bello e mostrati interessata per ciò che importa a loro. Vedete, io ho imparato ad essere felice. Prima bastava poco perché mi incupissi e vedessi il lato sbagliato delle cose. Questo Paese mi ha insegnato, tra le mille altre cose, a scherzare di un problema e condividere solo ciò che è positivo. Così da migliorare la giornata di qualcun altro, e così via come una catena.
E adesso, in questa notte tutti i ricordi mi avvolgono e mi scaldano il cuore..
Come il giorno di Natale. Ero a scuola (la Turchia è un paese prevalentemente musulmano di conseguenza non ci sono le vacanze natalizie); in quel periodo mi sentivo molto sola, e tutto ciò che volevo era mollare tutto e tornare a casa. Poi entrai in classe e trovai una festa a sorpresa in mio onore. Mi diedero dei regali e un bigliettino con scritto all interno, in italiano: "Non ci dimentichiamo". Come quando mia madre, a sapere che AFS Turchia aveva annullato i viaggi indipendenti per questioni di sicurezza, decise all'improvviso di comprare un biglietto aereo per me e lei, direzione Adana. Sapeva che i miei due migliori amici italiani erano lì, dall'altra parte del paese e aveva accettato di stare cinque giorni a casa di una sconosciuta solo per rendermi felice. Come quando sono uscita dall'aereo porto di Adana e ho sorpreso il mio migliore amico, che credeva mi avrebbe visto ancora al campo di fine anno. Come te le dimentichi certe emozioni così? Come quando io e mia madre, piangevamo abbracciate mentre lei mi diceva che ero sua figlia, e non poteva lasciarmi andare. Come il giorno in cui, con dei volontari provenienti da tutte le parti del Paese siamo andati in una scuola elementare, in mezzo al nulla vicino al mar Nero. Non avevano niente, quei bambini. Soltanto dei volti sorridenti e mille ringraziamenti mentre pitturavamo la loro scuola. Quel giorno insegnai dei giochi italiani e il cuore mi si riempie di gioia ricordando quella dozzina di bambini urlare da una parte all'altra del villaggio "Un, due, tre STELLA!".


Sono stati mesi di costruzione, mesi in cui mi sono persa mille volte, di adattamento e visione di un mondo completamente diverso, mesi fatti talvolta di sofferenza e mancanza. Spesso c'erano giorni così lunghi e orribili e non riuscivo a trovare il senso di nulla. Adesso però, guardo alle spalle questi otto mesi. Quelle paure, insicurezze, incomprensioni, lotte per essere accettata, felicità inaspettata e emozioni insostenibili. E tutto, adesso, acquista un senso che prima non aveva. No, non c'è stato alcun giorno speso inutilmente da quando sono arrivata. Neanche quando lo credevo. Adesso tutto ha preso il proprio posto, e io mi godo la vista dall'alto di questo bellissimo, complesso mosaico.
Chiudo questo lunghissimo discorso con un episodio di metà febbraio. Era la fine del campo di metà anno, avevo rivisto tutti i ragazzi del programma di scambio, e sentivo il cuore in pezzi nel viaggio di ritorno. Mi guardai intorno e realizzai che alcuni di loro sarebbero tornati a casa completamente stabili, avrebbero dato un arrivederci facilissimo perché alla fine, non avrebbero sentito la mancanza di nessuno. Lo dissi a una mia amica, una ragazza albanese che scappò con la famiglia in Germania durante la guerra. Mi disse "Sono felice che per noi sia così difficile. Va bene provare dolore, almeno ci sentiamo vivi". Perché un sentimento pacato viene sostituito da una vuotezza interiore. Non si prova niente. È solo se ami tanto, che nell'andare via si stanzia un dolore pari a quanto hai amato. E certe volte dimentichi da dove provenga e ti concentri solo sul fatto che faccia male. Invece quello è il promemoria di un sentimento che ti ha scaldato il cuore e resa felice. E io sceglierò sempre di mettere tutta me stessa nelle cose che faccio, di darmi senza chiedere nulla in cambio. Auguro a me stessa di non provare mai sentimenti stabilì che mi facciano lasciare un posto senza il bisogno di voltarmi un'ultima volta, per trattenerne un immagine in più. Mi auguro di dare addii che mi spezzino il cuore e di non avere mai il volto asciutto nel salutare i miei compagni di viaggio. E adesso, mi godo tutti i secondi che ha in serbo per me questa Turchia. Li renderò così belli da stare male. Ciò che posso dire è che questo Paese è per coloro che sono capaci di guardare. E dico, dal profondo del mio cuore, di essere onorata di aver speso questi otto mesi proprio qui. Onorata che siano state queste strade a vedermi cadere e rialzare e onorata infine, di versare un giorno lacrime nel lasciarle, per ritornare in Italia.

Auguro a tutti i prossimi ragazzi in partenza di essere capaci di catturare il più possibile del paese in cui stanno per andare. E a coloro le quali strade si troveranno proprio in Turchia, dico che sono molto più fortunati di quanto credono. Occhi sempre aperti e lasciatevi incantare dalla terra a cavallo tra due continenti!

Gaia

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