Sono andato in America in nave

Giovanni

Da Napoli negli USA per un anno

Quella corsa nella notte non finiva mai, e le rotaie cantilenavano l’ossessione che il giorno non sarebbe più tornato.
La ragazza seduta a fianco mi aveva chiesto se poteva appoggiarmi la testa sulle ginocchia. Per dormire. Quella accanto le dormiva già addosso. Sul sedile di fronte, altre tre ombre reclinate. Si cercava di riposare così, mezzo rovesciati sul vicino, dopo che erano finite le parole. Solo io non riuscivo a dormire. Nel buio, spinto contro la parete dello scompartimento, pensavo di essere l’unico sveglio in tutto il treno. Sicuramente anche il macchinista dormiva. Tanto non avrebbe mai più fatto giorno. Non saremmo mai arrivati a Rotterdam.

Quella locomotiva assatanata si era avventata sui binari con la ferocia di chi voleva strapparci di forza ai fazzoletti che sventolavano sulla banchina di Roma. Aveva velocemente scolorito nel crepuscolo le famiglie ansiose che ci avevano accompagnato a prendere il treno per Rotterdam. Ma ora che era affondata nella notte, non sarebbe più riuscita ad arrivare. Non avrebbe mai fatto giorno.

Perché non mi avevano lasciato partire da Napoli? Mi sarebbe bastato scendere a piedi da casa mia fino al molo del Maschio Angioino, e salpare. Invece i Napoletani avevano dovuto prendere il treno per andare al gran raduno di Roma, dove gli Italiani avevano preso il treno per il porto di Rotterdam, dove la M.S. Johan Van Oldenbarnevelt avrebbe raccolto gli Europei e traversato l’Atlantico fino a New York. Nel 1958 era normale andare negli Stati Uniti per mare. Ma questo spazio, che continuava a dilatarsi come non avrei mai immaginato potesse, aveva fermato il tempo. Anzi l’aveva retrocesso: quello che si credeva un uomo di sedici anni era tornato un bambino di sedici anni. Mi ero lasciato trascinare in una notte che non sarebbe mai più finita.

Solo quando mi trovai a guardare di sotto in su la mole terribile della M.S. Johan Van Oldenbarnevelt mi resi conto che stavo per cominciare una serie chissà quanto lunga di “prime volte”. Da bordo la nave cessò di essere un mezzo di trasporto e una cosa estranea, per divenire un essere animato, parte integrante della mia vita: mansueto e servizievole come un cammello. Ma ormai per la stanchezza non riuscivo quasi più a pensare. Riuscii a rimanere sveglio fino al doveroso applauso alla banchina che si staccava e allontanava con il suo carico di formiche nere sventolanti, e poi mi buttai su una delle ventiquattromila cuccette della mia camerata. Alle 18:00 in punto era convocata la prima riunione plenaria di orientamento e formazione all’esperienza che ci attendeva: volevo arrivarci con la lucidità mentale di chi va all’appuntamento con il Destino. Ma un trambusto nella cuccetta accanto mi fece riaprire gli occhi. Vi era seduto un ragazzo che stava pettinandosi con cura sotto il controllo attento di uno specchietto a mano.
“Sono già le sei?” gli chiesi.
“Eh?” rispose lui, lisciandosi i capelli con un po’ di saliva.
“Le sei, l’ora per la riunione di orientamento.”
“Ah, quella! L’abbiamo già fatta. Ora è mezzanotte.”
Rimasi trafitto come uno interrogato senza aver fatto i compiti.
“E allora dove vai?”
“Vado a ragazze. Ci sono le Francesi”.
Dire “Le Francesi” a quel tempo voleva dire “Libertà”. Non quella della Rivoluzione, naturalmente. Quella sessuale. Se fosse vero, o un mito alla Brigitte Bardot, o una fantasia collettiva della nostra repressione provinciale, non ebbi possibilità di indagarlo in quel viaggio: due borsiste napoletane erano rispettivamente compagna di classe e di campeggio scout della mia sorella maggiore. Forse erano anche più ansiose di me di liberarsi di pregiudizi e frustrazioni, ma io le percepivo come mie custodi e chaperons, e con loro a bordo non avrei mai osato tentare nulla che non sarei stato pronto a confessare a mia sorella. Loro, poverine, probabilmente lo stesso. Su una nave di almeno mille studenti, siamo riusciti per dieci giorni a non perderci praticamente mai di vista: mentre la nave era tutto un ribollire di fantasie, noi discutevamo compitamente di filosofia.
  • Giovanni e la sua mamma ospitante
  • L'antica sede della Holland American Lines
  • La nave MS Johan Van Oldenbernevelt

Il sogno americano di Giovanni

Prima di andare a dormire ho preso l’abitudine di andare a salutare l’oceano. Col buio diventa irascibile e ostile, ma ci sono le stelle: nemmeno il mare di Ischia riesce ad accenderne tante. Ma stasera le stelle non ci sono: la vecchia Oldenbarnevelt sembra entrata nel ventre del mostro. È il momento in cui mi rendo conto che quella gomena a poppa alla quale credevo attaccate la mia famiglia, le mie abitudini, le mie sicurezze, per trainarmele dietro ovunque, in realtà non esiste. Le onde che si richiudono sulla scia della nave si richiudono anche sul Vanni che conoscevo, e ad ogni giro di elica le sponde del mio passato diventano più lontane. Irrimediabilmente lontane. Irraggiungibili.

Ma la prua va verso il mio futuro. Ricordo le foto che mi hanno mandato: un dottore dallo sguardo bonario; sua moglie, sguardo forse un po’ severo, ma è lei quella che ha scritto la lettera bella di benvenuto; il mio coetaneo di sedici anni, con lo sguardo sfrontato del vincitore predestinato; sua sorella minore di appena un anno, dallo sguardo così dolce; un ragazzo di dieci anni e lo sguardo smarrito di essere ancora così piccolo; una bambina di cinque anni, lo sguardo nell’infanzia. La mia famiglia per un anno in sei rettangolini minuscoli di carta fotografica e una lettera, una famiglia rassicurante e accogliente. Ma in questo momento davanti alla prua c’è un buio che pare un muro, che si sta aprendo solo per inghiottirmi. Ecco, sono sradicato ed inerme. Passato e futuro mi hanno chiuso le porte. Solo il presente mi è amico; se non voglio precipitare nel panico debbo aggrapparmi a lui. Ed è una sensazione inaspettata: non mi sento appiattito, ma rinvigorito. Nel presente ci sono solo io: è di me che debbo imparare a fidarmi. Solo su di me, da ora in poi, dovrò contare. Che sia l’inizio dell’età adulta? Rientro dal ponte come un conquistatore.

E poi un giorno il muro di buio davanti alla mia prua si dissolse in un’alba di nubi da temporale disposte ad arco di trionfo sulla statua della Libertà e, dietro di lei, sui grattacieli di New York che le facevano corteo. La luce del mattino, che le nuvole intercettavano, emanava da loro. Tutto appariva sterminato. E “gigantesco” fu il primo aggettivo che associai agli Stati Uniti. Il secondo fu “colorato”: banchine, silos, magazzini, le costruzioni più banali, si rifiutavano al grigio e alle tonalità moderate, intonate, discrete. Volevano tutti essere degni dell’album di un bambino. Mentre l’autobus correva verso la mia Pennsylvania, la mia soggezione iniziale ai grattacieli e a New York si stemperava in un rassicurante, colorato ottimismo.

Il respiro delle cose aveva scandito il mio viaggio: lo sferragliare ritmato del treno, il rombo pulsante della nave, ora e per un anno l’ansito notturno delle colline. Dalla mia cameretta di Ben Avon, nei sobborghi collinari di Pittsburgh, sentivo di notte le acciaierie giù nella valle, sul triangolo d’oro alla confluenza dei fiumi. Da allora ho imparato che anche le cose parlano, e vogliono essere ascoltate. In America le ho comprese prima di comprendere le persone, e mi hanno confortato dando una cornice di dimestichezza e di meraviglia alla inafferrabilità di una lingua che avevo creduto di sapere. Sguardo attonito a ogni domanda e risposte in italiano anglicizzato: questo era il mio Inglese, nei primi tempi. Perciò imparavo a capire dal linguaggio del corpo: quello affettuoso della mia famiglia americana, quello amichevole della comunità, quello comprensivo della scuola, quello riguardoso di tutti. Finché sono stato un ospite, ho potuto apprezzare la formidabile carica empatica dell’accoglienza americana. Quando sono diventato uno di loro, sono riemerse le dinamiche universali della convivenza umana.
Sono diventato uno di loro quando ho fatto il mio primo sogno in Inglese.

Ero tranquillo e felice in famiglia, di cui mi sentivo un membro alla pari. Passato il Natale, era anche passata la “homesickness”, la nostalgia di casa. Eppure arrivavano momenti di assenza: sguardo improvvisamente sperduto nel vuoto, mentre eravamo tutti a tavola a cena, e mia sorella mi schioccava le dita come un ipnotizzatore che cerca di svegliarti dalla trance; sonate di pianoforte alla finestra col chiaro di luna; dischi di musica classica sdraiato sul tappeto di notte alla luce del grammofono; passeggiate solitarie tra gli aceri di Ben Avon fino al ponte, balcone con vista sulle fiamme delle ciminiere. Ora so che fanno parte del normale andare a tentoni dei sedicenni; allora li attribuivo alla mia provenienza da un altro pianeta.

Mi sentivo perfettamente integrato e a mio agio, ma non lasciavo che le mie due identità si disperdessero. L’Italiano e l’Americano potevano convivere senza schizofrenia. Ero più Italiano soprattutto a scuola, quando sentivo l’orgoglio della mia tradizione e della mia preparazione scolastica superiore. Ero più Americano quando vedevo con occhi altrui i nostri difetti storici. Ma ero più spesso un mix equilibrato, che si sentiva parte di una comunità senza confini nazionali. Indagavo il mio futuro. Ne vedevo due: un futuro dal quale sarei partito, quello dei miei coetanei americani, e un futuro al quale sarei tornato, quello dei miei coetanei italiani. Nessuno dei due futuri mi seduceva, ma ero già più fortunato dei coetanei che non avevano potuto avere un’esperienza come la mia, ai quali restava solo un futuro da cui scappare ed uno da fantasticare. Per me era come avere una carta di riserva da giocare al casinò della vita. Ora so che le carte di riserva sono un’illusione, perché quello che conta è il giocatore, ma so anche che un giocatore convinto di avere una carta di riserva è quanto meno un giocatore più fiducioso, e perciò più baldo. E soprattutto so che un giocatore con più esperienza di vita è un giocatore più accorto.

Quando fu il momento di ripartire, la mia madre americana mi diede un pacchetto di cartoline pre-indirizzate e pre-affrancate: “Così non avrai da fare altro che scrivere su ognuna che stai bene, e imbucarla nella prima cassetta postale davanti a cui passi”, mi disse. E la mia sorellina di sei anni, con gli occhi gonfi, promise: “Verrò a trovarti a Napoli”
“E come farai?”
“Con la mia bicicletta”.
“Dopo cinquant’anni sono tornato su quel molo di Rotterdam dal quale partivano le navi per l’America: è stato dismesso. Gli hanno lasciato solo un monumento all’emigrante, fatto delle sue valigie di cartone e delle sue balle gonfie di stracci. Neanche la M.S. Johan Van Oldenbarnevelt esiste più. E l’antica sede della Holland American Lines, guardiana severa dell’imbarco della vita, si è ridotta ad essere il grazioso albergo New York, miniatura civettuola tra i grattacieli. Ecco come cinquant’anni dissolvono un’epopea...”

“…ma conservano un ideale. Ecco perché dopo cinquant’anni ti ritrovi a Genova con un progetto coraggioso…”

Cinquanta anni dopo le notti sull’oceano, una notte sulla terrazza del lago di Orta: i genitori di un fresco returnee genovese, Letizia Barbieri ed Ettore Degola, attendono il sì di un returne napoletano di lungo corso.
Sì, lo farò. Per quel pacchetto di cartoline pre-indirizzate che volevano dire “ti abbiamo voluto bene”. Per quella bambina che voleva venire in bicicletta da Pittsburgh a Napoli. Per quegli adolescenti che vorrebbero poter scegliere anche loro tra due futuri. Per questa associazione di volontari coraggiosi alla quale non riesco a rispondere mai “ho già dato”, perché non ho mai la sensazione di aver restituito abbastanza.

Giovanni

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