Come ho vissuto il cristianesimo ad Hong Kong

Nello, da Lecce ad Hong Kong per un anno

Riflessione in occasione del Convegno "Il Silenzio del Sacro"

Per comprendere come la religione influenzi la cultura di Hong Kong e la quotidianità dei suoi abitanti è necessario ripercorrere alcune tappe storiche.
Fino a due secoli fa, l'arcipelago non era altro che un villaggio di pescatori cinesi. Per la sua posizione strategica è diventato, nel 1842, protettorato del Regno Unito, sotto la cui egida è rimasto sino a vent'anni fa.

Gli Inglesi hanno portato nella città del Guandong la loro lingua, cultura e religione. Il cristianesimo si è quindi inserito in un tessuto sociale a tutti gli effetti cinese. Questa nuova introduzione religiosa ha portato a vivere il cristianesimo in maniera peculiare e sicuramente differente dall'occidente.

Un evento che esemplifica tale diversità è la celebrazione del Natale. Hong Kong esaspera l'aspetto consumistico della festività, lasciando in ombra, complice la vertiginosa crescita economica e finanziaria che ha conosciuto nell'ultimo mezzo secolo, quello più intimo e spirituale.

I centri commerciali sono ingombri di luminose decorazioni già a partire da un momento climatico a cui io, da italiano, non ero abituato. Ad ottobre, dunque, con una temperatura di 25 gradi e un'umidità a livelli che noi definiremmo estivi, si può passeggiare per la città in pantaloncini e t-shirt sotto le luci e le decorazioni natalizie dei grandi magazzini.

Pertanto, ci si abitua alla loro presenza e alla dimensione esclusivamente commerciale che questa festività assume nella metropoli cinese.

A questo va aggiunto che il Natale non è un momento di riunione del nucleo macrofamigliare, bensì di evasione dal caos metropolitano. Mamma, papà e figli viaggiano: Taiwan, Korea e Thailandia sono le mete più gettonate.

L'ascendente della religione nella quotidianità dei giovani hongkongesi è forte. Moltissime scuole, dagli asili nido a quelle superiori, sono, infatti, cristiane. Quella che io ho frequentato si chiama "St. Stephen's College". Dotata di una cappella privata con tanto di reverendo, fa della componente religiosa la base della vita degli studenti.

E così studenti e professori tutti si incontrano nell'assemblea di fine settimana per ascoltare il sermone del reverendo William Newman.
Forse, non tanto per reale interesse verso il passo biblico che il reverendo espone, quanto per avere un'occasione di riunirsi come comunità studentesca unita e coesa che si riconosce tale nell'adempimento delle funzioni religiose. Cerimonie che la scuola, per retaggio coloniale britannico, impone, ma la cui partecipazione spirituale resta velleitaria.

Al di fuori di esse, infatti, sono ben pochi i credenti effettivi o coloro i quali conoscono chi fosse quel Santo Stefano il cui nome cantano ogni mattina nel loro inno scolastico.

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