Ritornare è bello, ma riadattarsi è la vera sfida
Piera
Da Isernia in Turchia per un anno
Ho scritto righe su righe durante il mio anno all'estero, riempiendo diari e consumando inchiostro, eppure, quando Intercultura mi ha chiesto di raccontare qualcosa sulla mia esperienza in Turchia non ho trovato il coraggio di buttar giù qualcosa. Le parole che avrei potuto usare erano tantissime ma non mi sono mai sembrate abbastanza. Mi sono presa del tempo, ho provato a schiarirmi le idee e a metterle in ordine, per non fare confusione, per dire esattamente ciò che avrei voluto dire. Ora ci sto provando e, a dirla tutta, non so come sarà il risultato, però so che moltissimi ragazzi mi capiranno, ed è a loro che voglio dire che non è mai troppo tardi per raccontare, per raccontarsi.
Non starò qui a dirvi quanto la mia esperienza sia stata meravigliosa ed emozionante, perché si, lo è stata, e nemmeno di quanto mi abbia cambiato la vita, anche se sì, lo ha fatto. Io qui, oggi, vorrei provare a spiegare qualcosa di cui pochi parlano, qualcosa che fa paura quando sei lì, all'estero, e che a volte può sembrare un incubo da qui, in Italia. Non intendo l'arrivo in aeroporto, l'abbraccio con i tuoi genitori e la tua famiglia e nemmeno la prima uscita con gli amici.
Ritornare è bello, ma riadattarsi è la vera sfida.
Ritornare è bello, ma riadattarsi è la vera sfida.
In Turchia vivevo in un appartamento nel centro città, mi bastava uscire di casa e salire sul primo autobus che mi avrebbe sicuramente portato dove volevo andare. In Turchia la colazione era il mio pasto preferito, fidatevi, non c'è niente di più bello che iniziare la giornata con uova, formaggio, olive, pomodori, frutta, salumi e tè caldo. In Turchia la mattina ti svegli, ti lavi, indossi la divisa e vai a scuola, niente trucco, niente accessori, tra i banchi ci si sta per imparare. In Turchia, o almeno a casa mia, eravamo tutte donne, mia madre era separata e i classici litigi tra marito e moglie non esistevano, nessuno urlava contro nessuno, o risolvevi le cose parlandone faccia a faccia, o entravi in una sorta di guerra fredda fatta di silenzi e occhiatacce che arrivava a durare giorni.
Con questo non dico che non mi piaccia la mia vita in Italia, la mia casa di periferia collegata al centro città da quattro, massimo cinque, corse di autobus, la colazione con il latte e i biscotti, la scuola italiana dove tutte le regole sono già palesemente infrante, la mia famiglia e le classiche e innocue litigate dei miei, però fare paragoni è inevitabile quanto sbagliato.
Tutto diventa assurdo, ciò che prima per te era normale e quotidiano al ritorno ti sembra fuori luogo, e di conseguenza anche tu finisci per convincerti che sei nel posto sbagliato, si, lo stesso posto che ti ha visto crescere per 16 anni ti appare come l'ultimo al mondo in cui vorresti trovarti. Ritornare nel tuo Paese ospitante ti sembra l'unica soluzione, rincominciare la vita che hai lasciato partendo fa troppa paura, non hai idea di cosa fare, ti senti perso, non sai più chi sei, cosa vuoi, dove vuoi stare, sembra quasi che la tua esperienza ti stia togliendo più di ciò che ti ha regalato e insegnato in un anno, tutto è un assurdo controsenso dal quale vorresti solo scappare. Eppure no, non è così e io, purtroppo o per fortuna, l'ho capito ora, dopo due mesi.
La Mia Turchia è finita, è vero, ma con il mio arrivo a Fiumicino è iniziata la Mia Italia, anzi, mi correggo, è iniziato il Mio Mondo, la Mia Vita.
Piera
Da Isernia in Turchia per un anno