Il mio primo giorno di scuola come "bule"

Giuseppe

Da Brescia in Indonesia per un anno

L'imbarazzante primo giorno di scuola si apre con l'Upachara: la cerimonia dell'alzabandiera. Un'ora ritti in piedi a pronunciare frasi e leggere saggi: si contano due svenuti e centinaia di annoiati.
Entrato dal portone principale con la nuova uniforme linda e candida, composta da una camicia bianca e pantaloni azzurro-grigio, mi son sentito cadere il mondo addosso. Tutti mi fissavano e nel momento in cui cercavo il loro sguardo, loro si voltavano a commentare con il compagno accanto: quando si dice "sentirsi osservati" non è solo questione di occhiate ma anche di atteggiamenti. Mentre passavo, loro si aprivano a cerchio e io camminavo rigido rigido ripetendomi solo una frase in testa "No, per favore". Continuavo a ripeterla come augurio, sperando di non incappare in qualche brutta gaffe proprio il primo giorno di scuola.

Ho incontrato così i volontari di Intercultura che mi hanno dato alcune dritte veloci e mi hanno spedito in mezzo alla folla, verso il mio gruppo classe che, per mia disgrazia, si trovava posizionato dall'altra parte del cortile. Raggiunti in fretta i miei nuovi compagni, ho scambiato due parole con il figlio del presidente di AFS Indonesia e finalmente ho tirato un sospiro di sollievo. L'Upachara è stata pesantissima: stare ritto in piedi un'ora è la cosa più stressante che potessero fare a dei ragazzi di quest'età. Tutti stremati, siamo arrivati verso la fine, momento in cui pensavo di aver fatto la parte più grossa della "fatica". Mi sbagliavo: si erano ricordati di me. Così mi hanno chiamato davanti a TUTTA la scuola mentre la preside mi presentava, naturalmente in indonesiano. Sotto uno scroscio di applausi e urla, sono passato davanti a tutti e al microfono ho sfoggiato tutto il mio indonesiano parlato: "Ciao sono Giuseppe, vengo dall'Italia, I'm happy to be here". Tornando al mio posto ho ricevuto il doppio degli applausi e richieste di foto, mentre alcuni urlavano una parola, a parer mio, alquanto deprimente: "Cuta" che significa "colui che si dovrebbe tagliare i capelli". Dopo un rapido colloquio con la preside che mi rassicura di poter tenere i capelli lunghi solo con l'impegno di curarli e accorciarli, mi hanno accompagnato in classe e presentato ai miei nuovi compagni.

Penso che la scuola sia un po' più semplice rispetto all'Italia. Le lezioni a cui ho assistito sembravano una più informale dell'altra: battere il cinque all'insegnante, parlargli come se fosse un amico, dormire, usare il cellulare. Il mio compagno di banco si è perfino messo a mangiare il pranzo mentre un'insegnante stava spiegando... ma il bello sta nel fatto che non era arrabbiata, rideva anche. Abbiamo avuto un'ora buca perchè il professore non arrivava, mentre abbiamo avuto una mezz'ora buca aggiuntiva perchè il professore è uscito dalla classe a fine lezione (e non a fine ora!). "Free time", mi han detto e tutti entravano, uscivano, andavano alla mensa, giocavano col cellulare o a carte, parlavano tra di loro. Non sembrava che a qualcuno potesse interessare minimamente della cosa, contando che il mio amico mi ha suggerito di andare a pranzare prima degli altri, assicurandomi che dopo ci sarebbe stata solo confusione.

In mensa ho trovato una trentina di studenti che avevano probabilmente ore buche, cosi ci siamo seduti al tavolo, io con il mio piatto di Nasi Goreng. Dopo poco avevo intorno dieci persone che mi fissavano mentre mangiavo e che mi hanno chiesto le solite cose: chi fossi e da dove venissi. Ogni tanto sentivo qualche "bule" tra una parola e l'altra delle ragazze, mentre i ragazzi preferivano urlare il mio nome per i corridoi quando passavo. "Bule" (bulè) è una parola che significa straniero: in qualsiasi caso ci sia uno straniero la maggior parte di loro, se non tutti, va in visibilio. Li definirei curiosi, quindi non c'è da preoccuparsi se, in un viaggio alla scoperta del Paese, si abbia a che fare con persone che ti fermano e ti chiedono foto o provenienza. Non sono dispettosi, anzi, è gente molto buona a parer mio, anche perchè vivendo in un Paese molto religioso la gente ha sviluppato una mentalità diversa da quella italiana.

L'ultima mezz'ora buca l'ho passata sotto interrogatorio: gente che ficcava il naso in classe e, appurato che non c'era il professore, ne approfittava per scambiare due parole con me. Non mi è dispiaciuto accontentare ogni loro richiesta, ma sta di fatto che sono uscito frastornato come se fossi stato legato per i piedi e appeso a testa in giù. Loro, tutti contenti di aver capito qual è il mio hobby, cosa mi piace del posto e qual è il mio sport preferito, non si curavano nemmeno di rispondere alle mie "controdomande" che servivano per prendere un attimo di pausa dal mio monologo in inglese.

Sta di fatto che, il giorno seguente, avendo forse parlato un po' troppo, entra Erix, compagno con cui ho avuto una conversazione abbastanza lunga il giorno precedente, con una chitarra. Lo scenario era questo: professore in classe, lezione in corso. La domanda shock era invece: "Can you play this?" accompagnata da un gesto forzato di darmela in mano. Non capivo... gli dissi di sì, ma rifiutai dicendo che il professore stava facendo lezione, mi chiesi inoltre come avesse fatto Erix (da un'altra sezione) a entrare senza il consenso di nessuno. Insistette dicendo che per l'insegnante andava bene; così strimpellai qualche nota per accontentarlo e mandarlo via. Il professore, sentendomi, spuntò alle spalle del ragazzo e, con un sorriso di approvazione, se ne andò a controllare gli esercizi dei miei compagni.
In fondo è cosi: Paese che vai, classe che trovi. Ogni singolo componente contribuisce a quella piccola armonia interna che si crea come se si fosse in una famiglia. Chi fa i dispetti, chi studia, chi si lamenta di chi fa dispetti, chi dice di abbassare la voce a chi si lamenta di chi fa dispetti. Ma ci sono anche quelli che stanno in silenzio, i giocatori professionali di UNO, il gruppetto di ragazze, il chitarrista, il gruppo di amici che se la ridono tra di loro, chi sta costantemente al cellulare con il compagno. È proprio in tutta questa confusione armonica che mi sono aggiunto io, senza sapere da che parte voltarmi, cercando di amalgamarmi a loro e aggiungere anche la mia "spezia" all'intruglio.

Giuseppe è all'estero grazie a una Borsa di studio del Crowdfunding: "Dona un anno che ne vale 100"

Giuseppe

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